Gianni Masciarelli, una conversazione interrotta

Ho conosciuto Gianni Masciarelli di persona. Un grande privilegio. Lo incontrai a casa sua, a San Martino della Marrucina, un piccolo borgo in provincia di Chieti situato a 420 metri sul livello del mare, proprio sulla prima collina davanti alla Majella. Era il 5 luglio del 2007, una calda mattina di luglio con una luce dorata e un cielo azzurrissimo che ricordo perfettamente ancora oggi a dieci anni di distanza.  

Masciarelli non era una persona facile. Nemmeno farmi ricevere era stato facile. A quei tempi stavo preparando una serata sul Trebbiano d’Abruzzo (gemello virtuale, maschio, bianco e abruzzese, della mia rossa e piemontesissima Barbera: acidità spiccata, molto produttivo ma estremamente esigente quanto a esposizione e terreni, potenzialmente longevo ma sistematicamente svilito dai produttori con versioni insignificanti e molto cheap), ma tanto era stato inspiegabilmente semplice ottenere un’intervista da Francesco Valentini, quanto era stato complicato ottenerla da lui. Me la fece proprio sudare.  

Ph. credits: Azienda Masciarelli

Ph. credits: Azienda Masciarelli

Dapprima provai ad avvicinarlo al Vinitaly, presso il suo stand, ma fu del tutto inutile perché Gianni Masciarelli era protetto da una sorta di cordone sanitario che lo rendeva irraggiungibile. Un collaboratore mi venne incontro, chiedendomi cortesemente se fossi una buyer o una giornalista. Non essendo né l’una né l’altra, mi ritirai di buon grado. Pazienza, mi dissi. Gli avrei inviato una e-mail in cui avrei spiegato il progetto della serata di approfondimento sul Trebbiano che avevo intenzione di organizzare per l’autunno, cosa che feci un paio di mesi più tardi, agli inizi di giugno. Non ricevendo risposta, provai a chiamarlo in azienda, ma la segretaria fu irremovibile: il Signor Masciarelli era molto occupato, ma avrebbe molto gradito conoscere in modo più dettagliato il mio progetto. Così spedii una seconda mail, attesi, ma dalla risposta che ricevetti pochi giorni più tardi non era chiaro se alla fine avrebbe accettato di incontrarmi oppure no: sì, si leggeva, forse si sarebbe potuto anche fare, ma prima era meglio capire chi fossero gli altri produttori coinvolti nel progetto, perché il Signor Masciarelli non aveva certo tempo da perdere… Su questo punto ero stata volutamente reticente, ma ormai erano trascorse tre settimane e il tempo stringeva: gli altri tre produttori mi avevano dato carta bianca, ma io ancora non ero in grado di organizzare il giro in Abruzzo, non sapendo se e quando Masciarelli mi avrebbe ricevuto. Presi tempo e attesi qualche giorno. Finché un bel giorno il telefono squillò. Era Masciarelli in persona.

“Buongiorno, Signora! Ho letto attentamente le sue mail, ma a dire il vero non ho capito bene che cosa lei abbia in mente esattamente. E confesso che non mi va molto a genio che il mio vino venga accostato ai vini di altri produttori…”

La conversazione non era iniziata un granché bene. Così, rassegnata al fatto che non mi avrebbe ricevuto, risposi:

“Faccia come crede. Non c’è problema, davvero. Mi dica solo se è un sì o un no.”

“Io non condivido mai una serata con altri produttori. Mai. Chi altri c’è?”

Non mi andava di svelare le mie carte prima del tempo ma, visto che insisteva, lo accontentai:

“C’è Valentini...”

“Francesco? Ha accettato?” chiese, sorpreso.

“Sì. Ha accettato.” 

“Allora è diverso”, replicò. “Guardi che è la prima volta che accetto una situazione del genere, ma se Francesco c’è, allora ci sono anch’io.”

Felice per l’esito inaspettato della nostra conversazione, lo ringraziai per la disponibilità e chiesi quando ci saremmo potuti vedere.  

“Si metta d’accordo con la mia segretaria”, rispose in modo lapidario.

E buttò giù il telefono.

Un uomo difficile. Puntuto ma schietto. Attento a ogni dettaglio. Abituato a essere deluso dalla mediocrità circostante, ma non rassegnato. Intransigente, come lo sono soltanto le persone intransigenti con se stesse.

La campagna attorno al San Martino sulla Marrucina. Ph. credits: sito istituzionale del Comune di San Martino sulla Marrucina

La campagna attorno al San Martino sulla Marrucina. Ph. credits: sito istituzionale del Comune di San Martino sulla Marrucina

Quella mattina di luglio non ero sola. Con me c’era mia sorella Patrizia, che aveva deciso di accompagnarmi in questo tour abruzzese. Ci portò nel suo ufficio e ci fece accomodare di fronte a lui. Mentre sistemavo il registratore sulla scrivania, per qualche strana ragione sentì il bisogno di ribadire che lui non si metteva mai in competizione con gli altri, che queste cose lo offendevano profondamente e che, se aveva accettato, era stato solo perché in degustazione c’era anche il vino di Valentini, “perché se dici Trebbiano, esiste solo lui”. Non era tipo da scendere a compromesso, o da cambiare idea facilmente. Non era un tipo malleabile. Continuava a essere convinto di quello che aveva dichiarato in prima battuta, e se non fosse stato per quell’imprevisto, quell’incidente di cui ancora non riusciva a capacitarsi – Francesco aveva detto sì! – sarebbe rimasto fedele ai suoi principi. Poi mi guardò con quello sguardo penetrante da lupo e si mise in attesa della prima domanda…

A chi avesse voglia di condividere il ricordo di quel momento, offro il testo inedito e non filtrato dell'intervista. È una conversazione interrotta, piena di pensieri lasciati a metà, suggestioni, non detti, che però lascia emergere una personalità forte, polemica, estremamente diffidente.  

  

Quando nasce l’azienda?

L’azienda nasce nel 1981.

Da un’eredità?

No, nasce con me. Mio padre ha sempre fatto l’autista di camion. Non eravamo vignaioli. Avevamo poco più di due ettari, ma lui non si preoccupava della terra, aveva un altro lavoro. Era mia madre che se ne occupava. Lei veniva da una famiglia di contadini. Aveva 3-4 ettari di vigna e il resto a frutteto. Le vigne erano vecchie. Quasi tutto Trebbiano.

Che età avevano?

Circa vent’anni. Oggi hanno quasi cinquant’anni.

Che percentuale hanno le viti di Trebbiano e di Montepulciano?

Il 30% è Trebbiano e il 70% è Montepulciano. Abbiamo anche dello Chardonnay, e del Merlot, ma il Merlot è un discorso a parte. Noi abbiamo piantato 13 ettari, 70% a Merlot e 30% a Trebbiano, ma quella del Merlot è stata una scelta obbligata. Volevamo acquisire quegli ettari perché è una terra bellissima. Automaticamente, dopo l’acquisizione di quella terra, che era terribilmente bella, c’era da fare una scelta: c’era una bella piana, c’era questa chiesetta del Duecento, c’è questo villaggio del Trecento completamente distrutto dai terremoti, e allora mi è sembrato opportuno mettere un vitigno che potesse dare dei buoni risultati. Io non amo particolarmente il Merlot, anche perché, avendo il Montepulciano, non ho bisogno di amarlo tanto, però sono convinto che quella terra sia ideale per il Merlot perché è estremamente ghiaiosa, è una terra scura, e poi è una zona piuttosto squilibrata, fa caldissimo, ma si rischia la gelata a giugno. Lì è molto difficile fare viticoltura. Il Merlot è un vitigno precoce. Quando arriva il caldo, è già formato. Vedremo in futuro se ci ho visto giusto. La vigna ha solo quattro anni, non produce ancora. Tra due anni cominceremo a fare cose interessanti. Ma lei voleva sapere del Trebbiano, no? Oltre al Marina Cvetic, noi abbiamo anche un altro Trebbiano estremamente interessante. È un Trebbiano in purezza che si chiama Castello di Semivicoli. Esce dopo due anni e fa solo acciaio, a differenza del Marina Cvetic che fa quasi due anni di barrique. L’ha mai assaggiato?

A dire il vero, no. Non è che si trovi molto in giro...

Certo che no! Perché ne facciamo solo 15000 bottiglie. Purtroppo durano solo sette giorni e non ce ne rimane mai, il che è un dramma, perché ha avuto un successo straordinario. Adesso ci attrezzeremo. Abbiamo comprato una vigna di 7 ettari di cinquant’anni all’interno di un bosco e sta proprio sotto il castello, a 300 metri sul livello del mare. Di una bellezza incomparabile. Per me sarà un’ottima uva. 

Dove si trovano le vigne del Marina Cvetic e del Castello di Semivicoli?

Le vigne del Castello di Semivicoli nel 2004 e nel 2005 sono le stesse del Marina Cvetic, che stanno qui a S. Martino. Sono vigne molto vecchie. Poi sono arrivate altre vigne perché qui non abbiamo più spazio. C’era l’esigenza di fare qualcosa di diverso, perché avevamo dell’uva straordinaria e non riuscivamo a sfruttarla tutta quanta. Allora ci siamo detti: proviamo a vedere se, utilizzando tecniche diverse di lavorazione, si può ottenere qualcosa di interessante. Molto probabilmente siamo usciti anche nel momento giusto, soprattutto in Italia, dove siamo un po’ provinciali – provinciali nel senso più dispregiativo del termine – e siccome da un po’ di tempo a questa parte la stampa scrive che il legno ha un po’ stancato, noi abbiamo avuto questo successo incredibile. Io continuo a preferire la barrique.

Quali sono state le prime annate?

Prima annata per il Marina Cvetic è il 1991, per il Castello di Semivicoli è il 2004. Però l’annata 2006 già non è più lui. Abbiamo selezionato vigne sia ad Ancarano, in provincia di Teramo, sia qui in provincia di Chieti, che sono vigne molto vecchie. Sempre lì ad Ancarano abbiamo comprato 4,70 ettari di vigne di quarant’anni di Merlot, di cui abbiamo fatto 35 barrique. Abbiamo fatto 70 quintali. E uscirà tra tre, quattro anni. Poi abbiamo un’altra cantina, Valori, dove l’anno scorso abbiamo fatto 2000 bottiglie di Merlot. È un’azienda che fa 130mila bottiglie. La mia politica è quella di fare un vitigno e cento vini. Per questo motivo mi interesso moltissimo a una serie di piccole aziende che, per vari motivi, hanno avuto la possibilità di fare vini interessanti. Noi le lanciamo. 

Quali sono i punti di forza del Trebbiano e quali i punti deboli?

Punti di forza? Il Trebbiano è un vitigno estremamente difficile. Non è tanto amato dalla maggior parte dei consumatori, e io sono d’accordo con loro.

Come mai?

Il problema è che noi abitiamo in Abruzzo e i nostri vitigni sono il Montepulciano e il Trebbiano. Mi sembrava opportuno lavorare sui vitigni nostri. Anche perché poi alla fine oggi non si beve più come negli anni Novanta. Oggi il vino è un prodotto più edonistico e, al tempo stesso, è espressione culturale, perché lo fa l’uomo, a differenza dell’olio. L’olio è un prodotto naturale. Il vino, esattamente come un quadro, in natura non esiste. Devi comprare la tela, i colori e i pennelli. In natura esiste l’aceto. Allora l’uomo interviene e rompe questo legame tra l’uva e il suo prodotto finale, creando un’espressione culturale. Come il terroir. Si dice scioccamente che questo termine è intraducibile in italiano. Sono d’accordo, ma anche Roma è Roma. Un americano intelligente non la chiamerà mai Rome. Noi invece lo possiamo definire con le parole nostre, che sono anche più incisive. Essendo l’uomo che fa questo, l’uomo che cos’è? È la sintesi di una selezione culturale del territorio. All’interno del territorio ci sono l’uomo, gli animali, la vegetazione, la storia, una semplice geografia. Geografia che vuol dire? Perché noi abruzzesi siamo sempre stati gli ultimi? Perché non abbiamo mai avuto la possibilità di esprimerci? Perché abbiamo geograficamente, morfologicamente, una situazione molto diversa rispetto ad altri territori: il 70% del nostro territorio, forse anche di più, è montuoso, con grandi montagne, che sono le più alte in Italia escluse le Alpi. Noi abbiamo sempre avuto grosse difficoltà, e in che cosa si è espressa questa difficoltà? Nella pastorizia. La pastorizia porta a chiudersi in se stessi. Che cosa siamo noi oggi? Questo è il problema. Noi non abbiamo avuto una grande espressione culturale. Il Rinascimento per noi non è mai esistito. I grandi personaggi nostri sono artisti come Michetti. Sono grandi per noi, Michetti è grande come abruzzese all’interno dell’Abruzzo, ma come pittore noi possiamo dire quello che vogliamo. È stato il primo grande fotografo al mondo, ha fatto una rivoluzione straordinaria, ma non come pittore. Io lo amo perché è comunque espressione di quadri viventi nostri, ma lui con la fotografia ha dimostrato al mondo che, stando a Francavilla, poteva dipingere Bologna senza andarci a Bologna. Gli arrivava la fotografia. Noi abbiamo avuto anche D’Annunzio, uno Sgarbi ante litteram. Questo è anche il mio territorio perché, alla fine, io sono anche orso.

La Majella.

La Majella.

Il mare conta poco?

Ma sì, perché noi non abbiamo un mare. Abbiamo un lago, l’Adriatico. Noi abbiamo avuto contatto con i Saraceni. Loro venivano, facevano il loro mestiere...

Ma torniamo al perché la gente fa bene a non amare il Trebbiano…

Perché è un vitigno così, con cui riesci a fare dei vini che costano poco perché riesci a produrne tanto, e quel vino è da bere tutti i giorni. Pensa allo Chardonnay: ha un’espressione straordinaria nel momento in cui hai delle produzioni limitate ma, se vai a 300 quintali ettaro, diventa meno gradevole del Trebbiano. Ecco la grandezza del Trebbiano. Il Trebbiano poi si acclimata molto in certe zone e non in altre. Se tu pianti dai 300-350 metri in su, fai delle cose veramente notevoli, con una capacità di invecchiamento straordinaria, sia perché per DNA ha una base acida molto importante, sia perché, non essendo un vino invadente dal punto di vista dei profumi, nel tempo diventa ancora più interessante, con buoni terziari, con una serie di evoluzioni che lo rendono molto più interessante. I vini che invece hanno già una forte carica di profumo possono anche essere poco gradevoli, perché mischiano i profumi primari con i terziari. Se pensi ai vini di Edoardo Valentini… Per me esiste solo Edoardo Valentini… Mischiare il Trebbiano con altri produttori diventa offensivo nei confronti di chi lo ha inventato, perché il Trebbiano è una cosa seria. Il Trebbiano è molto difficile farlo. Bisogna imparare delle tecniche molto importanti per dargli una sorta di caratterizzazione. Noi abbiamo provato con la barrique, per esempio, poi con una forte criomacerazione, che noi abbiamo fatto riempiendo la barrique, e quello che è avanzato è andato avanti con la fermentazione malolattica. Gli altri non li considero nella maniera più assoluta e più dispregiativa. Vedere tagli di Trebbiano con tagli di Chardonnay mi sembra inammissibile. Tanto è vero che io ho grosse difficoltà poi a prestarmi a un confronto. Di solito non accetto queste degustazioni, ma questa volta ho accettato perché sono sensibile, e poi mi piaceva il progetto...

A me piaceva la sfida…

Le sfide si fanno con le persone oneste… Se tu ti droghi e io no, io e te non possiamo fare una sfida…

No, certo…

No, il difficile è fare delle scelte drastiche. Ci sono delle regole classiche: avere un’ottima terra, fare un ottimo impianto, e nient’altro. Cercare di non rovinare quello che ti ha dato la natura. Non so se Francesco ti ha parlato dei Presocratici. Suo padre ne parlava spesso, annichilendo le menti degli altri produttori che chiedevano. Invece i Presocratici erano una cosa straordinaria…

(Patrizia) Armonia è la parola chiave, è una parola greca… ma è anche la ricerca segreta…

È la ricerca e basta…

(Patrizia) È la ricerca di tutti gli ingredienti. Quelli che ha nominato lei…

Sì, la natura di per sé… Quando dicevo prima di quel terreno squilibrato, quello dove ho piantato Merlot, è squilibrato per la viticoltura, ma molto probabilmente si è espresso in quel modo perché serviva per altre cose.

La natura ha sempre ragione. Se un terreno non è adatto alla viticoltura, non bisognerebbe piantarci delle viti… Com’è cambiata la vigna dagli anni Ottanta?

L’enologia italiana è nata nel 1986. Non c’è stata un’evoluzione. Non siamo partiti dalle scimmie per arrivare all’uomo. Siamo partiti dalle pietre per arrivare ai missili.  

Però c’era già chi faceva le cose seriamente…

È logico che c’erano dei personaggi tipo Giacomo Bologna, Angelo Gaja, Valentini, Mario Schiopetto, Bartolo Mascarello…

Da quando è uscito il Marina Cvetic…

Nel 1991, gliel’ho già detto…

Lo so, mi ricordo. Era solo l’inizio della mia domanda… Da allora com’è cambiata l’impostazione del vino?

Allora faceva un anno di barrique, adesso ne fa due. Ma sa, è normale. A me dispiace molto quando ci fanno sembrare degli scienziati. Lavorando vedi che, cambiando piccole cose, ma sempre nell’ambito, stai sempre sulla stessa autostrada…

Come ha capito quello che voleva ottenere?

Io sono sicuro di quello che voglio. Ho sempre un quadro di tutte le cose in testa e cerco di mettere insieme le cose per avere quel quadro. Poi, una volta che ho fatto quel quadro, mi dico: ma, se utilizzo una cornice più grande, magari... È una cosa positiva per certi versi, negativa per altri.     

Quali sono le annate che, secondo lei, esprimono maggiormente il carattere del Trebbiano?

Per Masciarelli il ‘91 e il ‘93, straordinari oggi. Per l’idea di Gianni Masciarelli il ’92 è stata un’annata straordinaria…

Perché?

Perché, a differenza dell’enologia italiana che ha avuto dei grossi problemi giustamente, noi abbiamo rischiato di fare il Montepulciano Villa Gemma sei volte meglio, perché era una grande annata, e io purtroppo l’ho rovinata…

Qual è l’annata che l’ha fatta soffrire di più?

Io non soffro quando le annate sono sbagliate. Se un vino non funziona, non lo faccio. Nel 2002 non ho fatto il Villa Gemma, ma quelle sono solo 30-40000 bottiglie. È molto più grave se decido di non fare il Marina Cvetic, che fa mezzo milione di bottiglie. Sfido chiunque al mondo a dire, no, non lo facciamo… Anche quello è espressione di un territorio in un’annata e te lo ricordi per tutta la vita.   

Ph. credits: sito aziendale

Ph. credits: sito aziendale

Veniamo ai nomi dei suoi vini…

Marina Cvetic è mia moglie. Semivicoli è un castello che abbiamo restaurato. Anche Villa Gemma è un luogo. È la villa qui di fronte.

C’è un vino a cui è più legato?

Sì. Al Montepulciano classico. È la cassaforte di tutto. È grazie a lui che abbiamo fatto il resto.

Nei vini lei preferisce l’eleganza o la potenza?

Io amo l’eleganza. Amo i Pinot noir della Borgogna. Tra i bianchi mi piacciono i Riesling. Mi piace il Vigna S. Urbano di Hofstätter, mi piace molto il Barolo come espressione italiana, in particolare quello di Bartolo Mascarello, ma anche quello di Chiara Boschis. Mi piacciono i vini di Marco de Bartoli. E poi mi piace Valentini, anche se è casa.

Quanto è contata nella sua storia la passione? E quanto la tradizione?

La passione? Tutto. La tradizione non so, me ne occupo poco. Amo la storia, la studio, è importante conoscere il passato… Ultimamente non sto apprezzando gli spagnoli perché stanno distruggendo il loro passato. La passione è tutto. Però la passione senza la conoscenza…

La tecnologia è importante?

Sì.

E la testardaggine?

La testardaggine fa fare grandi rinunce, però ci vuole un supporto culturale straordinario.

Secondo lei, c’è un legame tra la gente di questa terra e i suoi vitigni?

Sì, si assomigliano, sono tutti un po’ orsi…

Che uso fa del legno?

Giù in cantina ho 300 barrique. E a Villa Gemma ne ho altre 200…

Qual è il rapporto tra Trebbiano e legno?

Non sono d’accordo con Francesco quando dice che la nostra tradizione non è quella di utilizzare il legno. Noi non abbiamo una tradizione. Io utilizzo solo barrique di primo passaggio. Il Marina Cvetic fermenta in barrique e invecchia in barrique. Per quanto riguarda i vini rossi, solo il Villa Gemma nasce in barrique. Io non sono un khomeinista. Mi adatto. No, adattarmi sembra che mi accontento. Cerco di capire che cos’è meglio e di fare delle cose che si possano elevare sul territorio. Iskra, per esempio. Di solito il Villa Gemma rosso lo metto in barrique dopo tre anni, Iskra invece lo metto subito, e ci rimane solo un anno, poi lo imbottigliamo e gli facciamo fare due anni di vetro. È completamente diverso dal Villa Gemma. Il Montepulciano Marina Cvetic lo metto in acciaio dopo un anno, poi lo metto per un anno e mezzo in barrique e lì ci sta per quindici mesi. Come vedi, una terza versione. 

Qual è l’iter del Marina Cvetic Trebbiano, invece?

Faccio arrivare l’uva, la faccio ammostare, e criomacerare, nel senso che porto le bucce con la polpa a 7 gradi, le faccio stare in pressa con l’acqua che gli gira intorno, e poi il giorno dopo pigiamo e, quando ci accorgiamo che sta iniziando la fermentazione, cerchiamo di portare l’ambiente a 7-8 gradi in modo da avere una fermentazione a 16-17 gradi, per avere una forma di fermentazione controllata. Ci siamo sempre riusciti. Siccome il Trebbiano è povero di profumi, cerchiamo di andare oltre. Poi, tendenzialmente, fa due anni di legno. Per l’annata 2005 abbiamo fatto 21 mesi e abbiamo imbottigliato a giugno. Poi facciamo affinamento in bottiglia, ma è una forzatura. Non è una tecnica. La facciamo solo perché ce l’hanno chiesta.

Dal 2000 a oggi, quali sono le annate che, secondo lei, esprimono maggiormente il carattere del Trebbiano?

Gliel’ho già detto…

No, lei mi ha parlato degli anni Novanta. Ce ne sono state altre in seguito?

Sì. L’annata 2000.    

Che cosa abbinerebbe al Trebbiano?

Io sono convinto che un vino, per essere davvero apprezzato, va bevuto da solo. Una volta ho avuto una discussione con Gualtiero Marchesi e siamo entrambi convinti che un grande piatto va assaggiato con l’acqua e un grande vino va bevuto da solo. Purtroppo la gente non sta attenta a queste cose. Quando si ha un approccio culturale e professionale ad alto livello si fa così. Quando, invece, si sta in compagnia e si ricerca la piacevolezza, allora si deve cercare di non rompere l’equilibrio tra quello che abbiamo nel bicchiere e quello che abbiamo nel piatto. Poi io preferirei sempre il vino da solo anche in un momento di piacevolezza, forse anche perché noi siamo un po’ avvinazzati… Se però penso a un piatto, penso a un piatto a base di zafferano. Si sposa bene con la mineralità del Trebbiano.       

Ph. credits: www.prezzisalute.com

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Come mai si esprime questa mineralità?

È il legno. Con l’annata 2000 sembra di bere torba liquida. La mineralità è una serie di cose. Non è solo il terreno. È anche il sapiente utilizzo del legno. La conoscenza di come si tosta il legno. È la zona in cui si trova la foresta da cui proviene la quercia utilizzata, perché in fermentazione il legno cede moltissimo. Questo non gliel’ha mai detto nessuno, scommetto... Noi non vogliamo fare poesia. In realtà anche questo, secondo me, è poesia, perché è espressione del vino, ma io sono convinto che in questo lavoro bisogna conoscere la storia. Nello Chablis, invece, la mineralità è caratterizzata dal terreno.

Un’ultima domanda. Lei ha un destinatario ideale?

Vede, io sono famoso anche perché vado d’accordo con la famiglia, amo mia moglie, ragioniamo allo stesso modo… Da noi la cantina è sempre aperta a tutti. Da due o tre anni a questa parte accettiamo anche dei gruppi che comunque pagano. Noi facciamo la visita qui, poi facciamo la degustazione. Non perdo tempo, godo molto tempo con le persone normali. Sono quelli che capiscono il valore delle cose. Assaggiamo il Montepulciano classico, poi stappiamo anche le annate vecchie di Villa Gemma. Tra questi ci sono personaggi davvero straordinari. Io ho un’amicizia con un uomo che ha fatto il meccanico per tutta la vita, per darti un’idea… un uomo davvero straordinario, uno che prende 700-800 euro al mese di pensione. Questi personaggi hanno conoscenza, e anche passione, fanno un discorso professionale senza grilli nella testa. Questi sono i miei destinatari ideali. Questi sono i lettori ideali.

Al di là della tecnica appresa, alla fine si tratta di questo, no? Sono troppi ormai quelli che si dimenticano di usare la bocca per descrivere un vino e non sanno più distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è… La storia aiuta a entrare in contatto con la concretezza del vino, dell’esperienza stessa che scaturisce dall’incontro. Grazie. È una bellissima conclusione…

Smisi di parlare e gli sorrisi, sicura che Masciarelli avrebbe apprezzato il fatto di potersi finalmente liberare di noi. E invece, a sorpresa, riprese il discorso e disse:

“Per quanto riguarda la poesia, vada a trovare il termine greco e il suo significato. E allora capirà. Se lo vada a trovare...”

Patrizia intervenne di nuovo:

“So che cosa significa poiesis. Sono una grecista…”

Ma Masciarelli continuò a seguire il filo dei suoi pensieri:

“Poesia è il saper fare. Gli altri pensano chissà che cosa, ma si parte dall’artigianato.”

“Assolutamente,” proseguì lei. “Il saper fare, è questa l’idea, e il poeta, come chi fa musica, cibo, vino, prima di tutto fa, sa fare. Ma l’arte non c’è più. È rimasto solo molto artigianato…”

“No,” replicò lui, stizzito. “L’arte c’è sempre…”

“Dice? Io vedo molti cialtroni. No, per carità, ci saranno anche gli artisti, sono d’accordo con lei, gli artisti esistono, ma bisogna cercare molto per trovarne…”

Masciarelli tacque di nuovo. A un tratto sembrava pensoso.

“Quando la fate questa serata?”

“In ottobre…” risposi.

“E che annata presentate?”

Evidentemente non aveva tutta questa urgenza di liberarsi di noi.

“Penso il 2004. O forse il 2003.”

“Il 2003 è stata un’annata molto calda, anche se qui non abbiamo grossi problemi, essendo a 400 metri sul livello del mare. Anche Edoardo lo diceva: io a Loreto c’ho 18 ettari di vigna più 50 ettari di oliveti. Nel 2004 siamo tornati alla normalità. Noi non abbiamo mai anticipato la vendemmia. La cosa fondamentale è avere la cultura per non anticipare...”

“Forse perché avete vigne vecchie?” chiesi, curiosa.

“No,” rispose, “non è solo quello… Il problema che qui le vendemmie anticipate tendono a bruciare… Io ho anche il tendone per il Trebbiano, ma il filare è una cosa straordinaria sia per la fotosintesi sia per l’acidità. Io ce n’ho 120 di ettari, 70 solo qui a San Martino… Anche la pergola abruzzese è estremamente positiva, però 1600 piante per ettaro sono troppo poche… Io faccio guyot, e anche qualche cordone speronato. Il guyot è il migliore, ma è anche più costoso. Devi passare più volte...”

Con uno scatto si alzò dalla poltrona da cui mi aveva studiato per tutto il tempo dell’intervista. Tempo scaduto. Mi aveva dato del filo da torcere, contestando molte delle mie domande e spesso fraintendendone il senso, ma al termine il tono della voce era progressivamente cambiato e persino lo sguardo severo si era via via addolcito. In modo del tutto inaspettato, invece di accompagnarci alla macchina, ci invitò a salire sulla sua, perché a quel punto dovevamo assolutamente vedere le sue vigne, e i boschi. Altro che Toscana! Lì c’era la cura estrema del Senese unita alla bellezza selvaggia della Maremma!

Mentre indicava orgogliosamente le bellezze del panorama circostante, Patrizia ed io ci guardavamo divertite con la coda dell’occhio, chiedendoci che cosa avesse causato un cambiamento così repentino e radicale. Probabilmente avevamo superato una prova e quello era il premio. Passammo davanti a una casa dove gli scalpellini stavano rifacendo il tetto nella maniera tradizionale. Masciarelli ci disse che aveva costretto i proprietari a rifarlo a quel modo perché lui non avrebbe mai permesso a nessuno di deturpare il territorio impunemente. Ne andava molto fiero, credo.

Ph. credits: sito isitutuzionale di San Martino sulla Marrucina

Ph. credits: sito isitutuzionale di San Martino sulla Marrucina

Lì la montagna si ergeva maestosa, coperta di boschi secolari di querce, olmi e robinie, e tutt’attorno vigneti verdissimi intenti a catturare la luce. Nei giorni particolarmente tersi, ci disse, da lì si vedeva il mare.

La sua amata Villa Gemma, quella che dà il nome alla Riserva di Montepulciano, si trova situata sulla Marrucina, antichissima strada romana che corre sotto la collina del paese. Masciarelli iniziò a raccontare che San Martino era stato per almeno trecento anni un paese di “pruvelari”: le numerose famiglie di polverieri non solo conoscevano il segreto della polvere da sparo e la sapevano produrre, ma la sapevano vendere di contrabbando e all’occorrenza anche usare. Il polveriere era dunque un produttore e un mercante, un contrabbandiere e un fuorilegge, disse con un luccichio compiaciuto negli occhi.

Ma fare il polveriere non era, come avremmo potuto pensare, un lavoro tipico del luogo, bensì un segno di appartenenza alla comunità. Forse la ricetta della polvere da sparo era arrivata dal mare con i Saraceni, che spesso depredavano le coste adriatiche, ma più probabilmente era arrivata dalla Germania ad opera di un monaco, un certo Bernard Schwarz di Friburgo, vissuto nel XIV secolo, che portò la formula segreta in paese, lì la tramandò e lì visse fino alla fine dei suoi giorni, perché nei paesi limitrofi non se ne trova traccia.

Ci spiegò che la ricetta originale era composta da tre ingredienti: nitrato di potassio, o salnistro, carbone di corniolo e zolfo. Il salnitro lo si poteva trovare facilmente in inverno sulle pareti delle grotte intorno a San Martino. Lo zolfo, invece, arrivava a primavera come antiparassitario per le viti e come disinfettante per le botti. E, in mancanza di cornioli, si faceva di necessità virtù, bruciando i tralci potati in autunno. Una volta tornati in azienda, dove avevamo lasciato l’auto, mi porse un volumetto* che raccontava l’affascinante storia appena ascoltata e me ne fece dono. 

Furono due ore indimenticabili.

Quello non fu il nostro unico incontro. Lo incontrai di nuovo nell’aprile del 2008, al Vinitaly. Ci avvicinammo al suo stand come sempre sotto assedio, ma questa volta ci venne incontro sorridente e ci abbracciò, come se fossimo state delle amiche di lunga data che non vedeva da tempo. Si ricordava bene di noi e di quel giorno inondato di luce. Parlammo per qualche minuto, gli dissi che avevo in mente di scrivere un libro sul vino e di dedicare un capitolo al Trebbiano d’Abruzzo, e che per questo motivo ci dovevamo rivedere per una seconda intervista, perché tanti erano i punti irrisolti, e tante le domande che le sue parole avevano sollevato. Sorrise benevolmente e mi disse di chiamarlo i primi di agosto per fissare una data. Poi ci fece trovare un tavolo e ci salutò con un augurio: divertitevi.  

Purtroppo quelle domande sono rimaste senza risposta.

Mi piace associare la polvere da sparo al suo Trebbiano. Ancora di più mi piace associare a lui, che di quella tradizione sembrava erede diretto, la figura del polveriere – mestiere solitario, posti isolati, orecchio sempre teso e molta fatica. Ripenso a quella mattina di luglio e rivedo il suo sguardo da lupo. Un po’ mercante e un po’ contrabbandiere. Uno di quelli che resistono a tutto. Fiero, polemico, orgoglioso e libero. Un combattente, insomma (uno “con il diavolo dietro la schiena”, come vengono detti i sanmartinesi) che non ama essere blandito, né tanto meno adulato.

Lui stesso scrisse mirabilmente di sé:

Stare dalla mia parte non è assolutamente necessario né tanto meno auspicabile: al contrario, una dose di curiosità, come di fronte a una creazione estranea, con un’ironica resistenza, mi parrebbe una posizione incomparabilmente più intelligente nei miei confronti.

Ph. credits: Gus Clemens

Ph. credits: Gus Clemens

* Marco Pantaleone, Polvere di vite. I polverieri di San Martino sulla Marrucina. Ortona, Menabò, 2003, pp.95.