A proposito di Dolcetto - San Fereolo 2010

Quattro anni fa circa, quando la mia avventura con la Barbera stava ormai per concludersi, uno chef stellato piemontese sorrise della mia scelta di dedicarle un libro e disse che, se ero a caccia di vitigni sfigati, il Dolcetto mi stava aspettando.

Una specie di profezia, mi verrebbe da dire, visto che ultimamente non faccio altro che inciamparvi dentro. Vittorio Barbieri, un caro amico produttore sui Colli piacentini che mi chiede un parere su un Dolcetto che produce a Bobbio assieme al socio (Cascinotta di Rizzolo). Paolo Baretta (Rocco di Carpeneto) che mi chiede, per conto del Consorzio di Ovada, di assaggiare tutta la produzione prossimamente in commercio. Senza contare i produttori di Barolo da me intervistati che finiscono tutti, inevitabilmente, per parlare anche di Barbera e Dolcetto.

Nella triade langhetta - padre, madre e figlio - la parte più controversa tocca decisamente al Dolcetto. Molti sono i produttori che si interrogano sul suo futuro, alcuni in modo confuso, altri in balia di sentimenti contrastanti, altri ancora fiduciosi nelle sue potenzialità.  

Che cos'è un Dolcetto? Che cosa dovrebbe essere? Ma soprattutto: che cosa non può e non deve essere? Difficile dare una risposta univoca in un tempo in cui dalla zona del Barolo scompare, a Dogliani si restringe e a Ovada cerca una propria identità.

Quale direzione dovrebbe prendere? Quella di una deliziosa leggerezza? Quella dell'ambizione? Quella della complessità? O semplicemente quella di una specie che si avvia mestamente verso l'estinzione?

Seguendo il sentiero tracciato da Pino Ratto a Ovada e da Flavio Roddolo a Monforte, non dovrebbe essere difficile trovare una risposta - o, se non altro, una fonte di ispirazione. 

La bottiglia assaggiata in anteprima quando ancora non era in commercio.

La bottiglia assaggiata in anteprima quando ancora non era in commercio.

Da più di vent'anni anche Nicoletta Bocca tenta di dire che cosa possa essere un Dolcetto a Dogliani, e lo fa proponendo quattro versioni di Dolcetto molto diverse tra loro. Il San Fereolo è una di queste. Lungi dall'essere un Dolcetto depresso o penitente, estremo o confuso, è uno di quei vini che, quando li incontri, danno una scossa elettrica e catturano (meritatamente) l'attenzione. 

Faccio una premessa. Un Dolcetto, per essere un grande vino, non deve necessariamente essere né serioso, né virile, né tanto meno castigato. A volte si tende a confondere le cose. Ricordo ancora lo stupore al primo assaggio: quel vino non era affatto austero e maschile come mi era stato descritto. Al contrario, era un vino estremamente sensuale. E, non a caso, la prima a stupirsi del mio commento fu proprio Nicoletta: ero la prima persona a dirle una cosa del genere. Com'era possibile?  

Oggi comprendo bene le ragioni dell’equivoco: ciò che può essere interpretato come austero e scambiato per virilità, in realtà, è un certo rigore formale che tenta di mettere ai ripari dalle critiche questo audace Dolcetto, preservandone la bellezza e rispettandone la natura profonda.

È un maglione abbondante che cerca di occultare la sensualità di un corpo. È l’abbraccio di una madre potente che cerca di proteggere la propria creatura dalle brutture del mondo. È la luce dorata del mattino che avvolge il bosco senza dissolvere le zone d’ombra al suo interno.

Perché questo è un vino che osa confutare un’opinione ampiamente condivisa: che un Dolcetto non può permettersi di sfidare il Tempo

Sì, voi direte, ma com'è questo vino? 

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San Fereolo 2010, ultima annata in commercio.

Nel bicchiere osservo il liquido color mirtillo. Ha un delizioso sentore vinoso che tradisce una giovinezza che non ha. Al naso è tutto un effluvio di erbe aromatiche, agrumi e viola appassita. Accanto alla nota speziata di pepe bianco c’è un contrappunto grasso, burroso, che fa venir voglia di mordere la lunga sequenza di frutti rossi carnosi che, curiosamente, riemergono dal più alcolico al più fresco: la ciliegia sotto spirito, la prugna cotta, la mora, il ribes.

In bocca è un’insalata di more, intere, fresche, come quella che faceva mia madre. È un vino a cui non manca nulla, asciutto, fresco, sapido, con l’alcol molto ben integrato, e dei tannini deliziosi, oserei dire perfetti, un vino insomma diritto, correttissimo, senza sbavature, sensuale e avvolgente, che ti riporta continuamente al sorso successivo.

Vi pare forse un vino austero e vittoriano?

Naturalmente per Nicoletta il Dolcetto sa essere molto altro: lieve come un passo di danza (Vigne Dolci), misurato come un gesto lento (Valdibà) o rischioso come un viaggio iniziatico (1593).

A dimostrazione che il vitigno non si esaurisce affatto nella dicotomia vinello fruttato - vinone baroleggiante, ma sa esprimere molte altre anime, molte altre nature.  

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