Splendori e miserie di una bottiglia chiusa

Alix:        “Papà faceva vini al limite dell’austerità…”
Hubert:   “Sì, ma erano buoni dopo 15 anni”
Alix:        “Sì, sono come te. Ci vuole parecchio tempo per apprezzarti…”
Hubert: “Sì ma dopo mi bevono…”

(da Mondovino, Hubert de Montille e la figlia Alix)

Con un delizioso scambio di battute, padre e figlia esprimono in maniera molto felice fino a che punto l’essenza del produttore si trovi disciolta nel suo vino. L’anima dell’uomo e quella del vino si fondono fino a confondersi in un gioco di specchi – l’austerità, l’attesa, la resistenza di una natura indomabile, la ritrosia e l’irrequietezza, lo sconcerto, l’evoluzione, il fascino seduttivo, la resa. Ci vuole tempo per apprezzare uomini e vini che stentano a concedersi. Ma dopo li si beve. Magari per tutta la vita.

Ecco. A me piacciono i vini che si fanno aspettare. Che mi sfidano. Che mi sconcertano e mi lasciano confusa, che sovvertono le mie convinzioni e che mi vengono a stanare. Che mi fanno allineare lo sguardo su una traiettoria che non avevo considerato. Che mi fanno spostare il limite. Questi vini sono sempre piccole produzioni. Non necessariamente costose. A volte lo sono e a volte no. Possono essere bianchi o rossi, fermi o frizzanti. Persino dolci. Ma dietro hanno sempre grandi personalità che li hanno concepiti e che emergono prepotentemente con la loro voce unica, prepotente, inconfondibile.

Questi vini hanno un senso nella misura in cui riescono a intrappolare nella bottiglia un pezzetto di mondo – un territorio, una collina, una vigna – che è lì ed è soltanto lì.

La vite è il catalizzatore comune. È attraverso le foglie che nel grappolo fluiscono aria, luce e calore – ciò che, in modo meno poetico, chiamiamo microclima. Attraverso le radici invece non solo transita il suolo con tutti i suoi minerali e i suoi principi nutritivi, ma anche la rete inestricabile che lega tra loro le singole viti, i vigneti e le altre specie vegetali. E poi ci sono le specie animali. E la mano dell’uomo. Con tutta la sua sensibilità e le sue emozioni. Anche quelle rimangono intrappolate nella bottiglia. E anch’esse possono fare la differenza.

Il territorio, il clima e l’uomo sono ciò che i francesi chiamano terroir. Vale a dire, l’incontro fatale tra un certo luogo, certe specialissime condizioni atmosferiche e gli esseri umani che condividono con le loro viti la stessa aria, la stessa luce e lo stesso calore.

Se il suolo e il clima non sono esportabili e riproducibili altrove (anche se poi sappiamo bene che c’è chi ci sta provando), al contrario, la mano dell’uomo lo è di sicuro.

Le mani di un uomo: scegliere di non agire è pur sempre una scelta.

Le mani di un uomo: scegliere di non agire è pur sempre una scelta.

Non si può negare che nei grandi vini si avverta la mano felice del loro interprete, ma questo non deve trarre in inganno. Infatti colui che interpreta, la materia prima – un concentrato di suolo, minerali, aria, luce e calore – non dovrebbe forzarla e torcerla come un bonsai bensì, al contrario, dovrebbe assecondarla, comprendendone la vera natura, intuendone una sfumatura nascosta, cercando di farla emergere e di renderla visibile.

Sensibilità significa non voler snaturare. Significa non voler cancellare l’impronta del territorio. A questo deve puntare il piccolo produttore e a null’altro: a catturare nella sua bottiglia un territorio, una natura, e un’emozione.

Capisco che sia difficile optare per una bottiglia unica potenzialmente difettosa quando l'alternativa è una bottiglia seriale che non presenta sorprese, ma io ho le mie buone ragioni per scegliere la prima.

Come col genio della lampada, quando si tiene tra le mani una bottiglia ancora chiusa, si dovrebbero formulare dei desideri. Il mio è: fammi provare un’emozione.

Aprire una bottiglia qualsiasi è di per sé un gesto estetico, sia che preluda a un gioco di sguardi, a un brindisi festoso fra amici o a un aperitivo solitario davanti alla TV. Ma aprirne una di un piccolo produttore è un’altra cosa: è un gesto che scatena delle emozioni perché il finale è incerto e imprevedibile.

Conficco il cavatappi nel sughero e, mentre lo estraggo, assaporo lentamente l’incertezza dell’esito. Non so che cosa stia per succedere. Annuserò il tappo e questo mi parlerà. Chiuderò gli occhi godendomi estasiata un profumo meraviglioso, storcerò il naso infastidita o rimarrò sospesa, in attesa di un verdetto che tarda a venire?

Verticale di Trebbiano d'Abruzzo Valentini. Credits: Graziana Troisi

Verticale di Trebbiano d'Abruzzo Valentini. Credits: Graziana Troisi

Già. Il tappo è problematico. Croce e delizia dei produttori. I grandi vini richiedono il sughero. Ma il sughero è infido. Tradisce. Lascia respirare il vino, lo mantiene in comunicazione con l’esterno, ma talvolta dà rifugio a sostanze maleodoranti o a infezioni fungine. Ho in mente così tanti volti sconcertati, tante espressioni contrariate, e verdetti seccati. Produttori che scuotono il capo con un certo aplomb di fronte a una bottiglia che ha tradito. Altri che imprecano mentalmente e afferrano una seconda bottiglia. Altri ancora che sorridono a denti stretti e dicono, no, questa no. Succede di rado, ma succede. Per chi produce vino è routine.

Torniamo all’emozione che si scatena all’apertura di una bottiglia. 

Prima possibilità: chiudo gli occhi e mi godo estasiata un profumo meraviglioso. Che bella sensazione! Quel profumo mi sta parlando. Ma è solo l’ouverture di ciò che ritroverò nel bicchiere, perché il vino ha bisogno di sgranchirsi e di stendersi prima di raggiungermi. Ci sono vini che pronunciano subito le prime parole. Sono vini socievoli, affabili, che ti raccontano il loro territorio, e ti trasmettono tutta l’aria, la luce e il calore che hanno incorporato. Li bevi e ti vien voglia di andare a vederli, quei campanili e quelle piazze di paese. Li bevi e ti viene voglia di infilarti nella prima osteria per assaggiare piatti che la tradizione della cucina regionale accompagna ai quei vini. Agnolotti al plin e Barbera. Gambero rosso crudo con un bel bicchiere di Grillo o Catarratto. Chianina al sangue assieme a una qualsiasi delle meravigliose epifanie del Sangiovese – che sia Chianti Classico, Morellino di Scansano, Brunello di Montalcino o Nobile di Montepulciano dipende solo da quale paesaggio abbiamo voglia di avere nel cuore.

Seconda possibilità: storco il naso infastidita. Forse è solo una riduzione, mi dico, ma già so che quella puzza non svanirà nel corso del tempo. Forse è una bottiglia che verserò nel lavandino – o, nella migliore delle ipotesi, che riporterò all’enotecaro (ammesso che l’abbia comprata di recente e vicino a casa) per farmela sostituire. Un’emozione abortita. O forse no. Anche questo fa parte del gioco. In fondo è solo una questione di probabilità. Ogni tanto accade, così come accade nella vita di perdersi una festa per una febbre improvvisa o un guasto alla macchina.

Terza possibilità: resto sospesa, in attesa di un verdetto che tarda a venire. È la mia situazione preferita. Osservo la pallina ruotare chiedendomi se si fermerà sul rosso o sul nero. Il destino di quella bottiglia è già segnato, ma finché il vino non decide di parlare l’esito è incerto. Il tappo non promette nulla di buono, ma è di difficile lettura. Succede con i vini longevi che hanno bisogno di molto tempo per percorrere il loro cammino a ritroso. Succede con i vini naturalmente imperfetti, quelli senza trucco, quelli senza ritocchi estetici.

Di solito, se il verdetto tarda a venire, è buon segno. Sono vini che poi ti sorprendono quando all’improvviso si aprono lasciandoti senza fiato. Sono i vini con la sorpresa dentro.

Sono i vini con l’anima.