Looking for Giacomo

Antefatto delle puntate precedenti: per quasi dieci anni avevo percorso tutta quella strada, setacciando in lungo e il largo le terre della Barbera, attraverso l’Astigiano e il Monferrato, il Tortonese, le Langhe e il Roero e, alla fine di tutto quel girovagare, ero riuscita persino a dialogare in sogno con Giacomo Bologna, il padre del Bricco dell’Uccellone, ovvero l’inventore della Barbera moderna. Per qualche strano motivo, però, fino a Rocchetta Tanaro, non mi ero mai spinta. Di tanto in tanto immaginavo di andarci, e pianificavo un piccolo detour lungo la strada – quante volte l’avevo sfiorata in tutti quegli anni? venti, forse trenta – ma poi alla fine, chissà perché, tiravo sempre dritto per la mia strada. Forse sapevo che lì non c’era nessuno ad aspettarmi e nulla da scoprire. Ma dentro di me continuavo a chiedermi il perché di tanta ostinazione. In fondo quello era un atto dovuto. Come si fa ad aver scritto un libro sulla Barbera e non essere mai stata a Rocchetta Tanaro? Sì, era davvero assurdo. Non avevo scusanti.

Gennaio 2016. Finalmente mi ero decisa a compiere il pellegrinaggio. Con tutte le date possibili, era curioso che io avessi scelto proprio quel giorno, ma il fatto è che io, Rocchetta, me l’ero sempre immaginata d’inverno, come in una cartolina in bianco e nero: lambita dal Tanaro, circondata da boschi spogli, e sovrastata dal castello degli Incisa. E avevo avuto ragione: Rocchetta se ne stava effettivamente al di là del fiume e coronata di boschi. Mi trovavo sulla riva destra del Tanaro. Quella sbagliata, avrebbe aggiunto Mario Soldati con un sorriso beffardo, convinto del fatto che da quelle parti le Barbere fossero un concentrato di sole e di calore, e finissero tutte, inevitabilmente, per baroleggiare… Che Soldati avesse avuto più o meno ragione, le Barbere prodotte nella terra degli Otatani (oltre-Tanaro), come li aveva definiti con un certo disprezzo un contadino della riva sinistra[1], io le avevo snobbate quasi del tutto.

Al mio arrivo parcheggiai davanti a una scuola e scesi dall’auto. Nonostante il cielo coperto, faceva molto freddo. Troppo. Meno cinque. Ma che pretendevo a gennaio? Rocchetta era praticamente deserta. Solo qualche signora a spasso con il cagnolino e qualche anziano signore che, incontrandosi, si salutavano per nome, prima di volgere entrambi lo sguardo sospettoso verso di me. Nessuno mi avrebbe potuta scambiare per una turista: ero con ogni evidenza un corpo estraneo, una sconosciuta che si aggirava con fare sospetto e la telecamera in mano.

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Scattai alcune foto giusto per provare che ci ero stata davvero: un vicolo che si inerpica su fino al bosco, la fontana dell’acqua con la curiosa cannula a forma di gargoile, la piazza del municipio, la targa “Rocchetta Tanaro: città del vino”, la chiesa cinquecentesca color pastello, il campanile svettante a pianta quadrata, il triste monumento ai caduti della Grande Guerra, la targa di commemorazione per le vittime della Seconda Guerra. L’orologio della torre campanaria segnava le dieci e cinque. Mi avvicinai al monumento in cerca di qualche traccia: Bologna Angelo fu Lorenzo. Chissà se era suo parente. Il padre si chiamava Giuseppe, ma la biografia di Nichi Stefi non diceva nulla a proposito del nonno di Giacomo. A destra della chiesa, Via al Castello offriva lo scorcio di un palazzo imponente di quattro piani, sulla sinistra, collegato a una terrazza tramite un balcone sospeso. Doveva essere il famoso castello dei Marchesi. Là dove tutto era cominciato. Era forse una coincidenza che in un paese “con dieci vigne, due case e una chiesa”[2] fossero nati due uomini illustri come Giacomo e il Marchese Mario Incisa della Rocchetta? Nient’affatto. L’uno non sarebbe mai venuto senza l’altro. In fondo a chi, se non al creatore del famoso Sassicaia, si doveva l’involontaria e inconsapevole educazione sentimentale di Giacomo ai grandi vini? Il Marchese aveva lasciato incustodita la sua cantina e Giacomo si era fatto una cultura a sue spese. Senza quelle preziose bottiglie Giacomo non avrebbe mai saputo come fosse un grande vino e non avrebbe mai sognato di far diventare tale la Barbera.

 

Mi incamminai addentrandomi nella viuzza: il castello era collegato a un palazzo ottocentesco a cui si accedeva attraverso una salita costeggiata da alti paracarri in pietra. Mi avvicinai al portone del castello: come recitava il cartello turistico posto dall’amministrazione locale, il castello risaliva al XII secolo. Iniziai a leggere.

Nel 1188 Alberto I vi era morto per le ferite riportate combattendo valorosamente contro gli astigiani che volevano occupare le terre di Rocchetta. Nel 1637 era stato assediato dalle truppe dei duchi di Savoia con un drappello di francesi. Nel 1650 le truppe francesi l’avevano saccheggiato di nuovo. E nel 1797, proprio lì nel castello, due giacobini rocchettesi erano stati accusati di ordire complotti anti-aristocratici durante i brevi moti rivoluzionari della Repubblica Astese.

Quanta storia. E quanti nemici. Astigiani, francesi, giacobini. Persino i Savoia. Il castello non sembrava aperto al pubblico. Fine della corsa. Sopra il portone in fondo al vicolo, si intravedeva ancora la scritta ASILO INFANTILE. A quando risaliva? Era forse oltre quel portone verde che Giacomo aveva giocato con i suoi amici, scoprendo l’esistenza del famoso infernot del Marchese? Era forse stato un luogo pubblico un tempo? La cancellata del palazzo nobiliare era chiusa da un catenaccio. Oltre, un bosco di platani enormi, sagome nere stagliate contro il cielo latteo.

Avendo il passo sbarrato su tre lati, mi incamminai in quella direzione, seguendo il muro che recintava la proprietà. Non impiegai molto a percorrere il sentiero deserto, lungo il quale si diramavano i vicoli digradanti del borgo, e quando mi fermai a guardare il panorama, mi ritrovai con Rocchetta ai miei piedi, con i suoi tetti, il campanile della chiesa e le colline coperte di boschi in lontananza. Inspirai l’aria fredda nei polmoni e rabbrividii. Mi sentii sola. Forse avevo fatto bene a non avventurarmi fin lì in tutti quegli anni.

 

In preda ai miei pensieri, ritornai nella piazza da cui ero venuta e mi diressi verso la chiesa. Non era mai capitato che, visitando un luogo, non entrassi a darle un’occhiata. Ma quel giorno mi fermai sulla soglia, esitante. Che cosa speravo di trovare lì dentro? Mi pareva improbabile che Giacomo avesse lasciato traccia di sé lì dentro. Una creatura dionisiaca come lui avrebbe potuto forse lasciare le sue tracce in un bosco, in una vigna, o all’osteria. Alla fine mi decisi ed entrai: la chiesa, un tempo annessa al castello, ospitava solo le spoglie degli Incisa, il più antico dei quali era stato sepolto verso la metà del Cinquecento. Gli Incisa. Sempre e solo gli Incisa. Quello era il loro mondo, non quello di Giacomo, ne ero certa.

Mi incamminai lungo la strada principale. Camminavo con passo veloce, cercando di riscaldarmi le mani senza successo. Che c’ero venuta a fare a Rocchetta? Che cosa mi aspettavo di trovare? Ragazzi per strada intenti a giocare al pallone elastico come negli anni Cinquanta? Un carretto stracolmo di botti da consegnare ai clienti? Il bel mondo che si riuniva lì, parcheggiando automobili lussuose davanti alla porta della Trattoria Braida? Quel mondo non c’era più. Ero arrivata tardi a un appuntamento mai dato.

Il paese pareva deserto. Era un martedì mattina qualunque. I bambini erano a scuola. E faceva freddissimo. Qualcosa in tutti quegli anni era rimasto al suo posto: il fiume. Mi incamminai verso il Tanaro, bisognosa di certezze. Attraversai la strada deserta e mi ritrovai al centro di un giardinetto surreale di cui non comprendevo il senso: due statue pseudo-romane al centro di due vasche invase dall’erba, due leoni, una fontana e un cippo commemorativo. Poco distante una ragazza bionda urlava al telefono in una lingua incomprensibile, mentre il suo cane al guinzaglio abbaiava furiosamente, protestando per la mancanza di libertà.

“Sulle colline del Tanaro e della Valtiglione, piccoli gruppi di sbandati avevano iniziato a organizzarsi in bande partigiane a partire dalla tarda primavera del 1944”,

- recitava il cartello alle sue spalle. Di colpo la ragazza smise di urlare e si decise a liberarlo. Finalmente cadde il silenzio.

 

Mi fermai lungo la balaustra a osservare il fiume: l’acqua scorreva tranquilla ma veloce, con le sagome spoglie degli alberi riflesse sulla superficie color giada. Al di là del fiume, sulla riva sinistra (quella giusta), si intravedevano delle colline coperte da boschi. Io mi trovavo al di qua, sulla riva destra, oltre-Tanaro. Forse avrebbe avuto più senso tornarci d’estate, quando avrei potuto osservare l’orientamento del sole e l’esposizione delle vigne. Da quando ero arrivata, non ne avevo ancora viste. Il fiume scorreva a nord di Rocchetta. Le vigne dovevano trovarsi tutte dall’altra parte del paese.

Tornai indietro intirizzita, intenzionata a bere qualcosa di caldo. Mi infilai nel Bar degli Amici e ordinai un caffè marocchino. Il proprietario mi fece un cenno di assenso, scrutandomi in silenzio. Mi guardai attorno: la piccola stanza in cui mi trovavo, con il bancone e il soffitto basso, e un’ampia sala sulla sinistra, con i tavoli di legno, la stufa accesa, e una ventina di signore attempate, fresche di messa in piega, che facevano salotto o giocavano a carte. Il Bar degli Amici: era forse l’antico nome del bar che Giacomo aveva ereditato alla morte del padre, prima che diventasse la Trattoria Braida, o la memoria mi ingannava?

“Il bar è suo da molto?” chiesi al barista mentre sorseggiavo il caffè.

“Sì. Da dieci anni.”

“E prima chi c’era?”

L’uomo mi fissò con una punta di diffidenza.

“Giornalista?”

“No, non scrivo per un giornale. Scrivo e basta…”

“Ah… l’avevo capito, sa? E che cosa scrive?”

“Ho scritto una libro sulla Barbera… volevo sapere di Giacomo Bologna. Lo conosceva?”

“Certo che lo conoscevo! E anche Gianni Rivera…”

“E com’era?” chiesi sorpresa per la piega imprevista che aveva preso la giornata.

“Chi? Rivera?”

“No. Giacomo…”

“Giacomo? Era una persona eccezionale. Di quelle che non ce n’è più in giro.”

Il Signor Carlo non sembrava avere dubbi: Giacomo aveva avuto il mondo ai suoi piedi, ma quando c’era da far festa, non stava tanto a guardare chi c’era attorno. Prendeva dentro tutti, che fossero Veronelli o solo un ragazzotto di paese come lui. Non ne faceva una questione di censo. A lui bastava divertirsi. Apriva delle bottiglie dal costo proibitivo e le condivideva con tutti. Lo stesso quando arrivavano i tartufi. Il successo non l’aveva mai cambiato.

Mentre l’uomo parlava, ripensai alle parole di Luigi Ferrando, produttore di Carema, e al tempo mitico in cui gli amici erano amici e basta. Ma poi, chissà perché, le cose erano cambiate. Il mondo del vino era cambiato. Alcuni, come Giacomo, erano morti; altri erano diventati delle star e, per parlarci, era diventato necessario prendere un appuntamento. Ma Giacomo era rimasto se stesso: un uomo alla mano, estremamente generoso, una natura libera, selvaggia e incontenibile.

“Ne ho delle altre, di storie!” esclamò con un certo orgoglio, tendendomi lo scontrino. “Torni a trovarmi. Tra le otto e mezza e le nove, quando c’è più calma…”

Promisi che sarei tornata e pagai.

Alla fine lo avevo trovato, Giacomo. Al Bar degli Amici.

 

 

[1] M. Soldati. Vino al vino. Milano: Mondadori, 2011, p. 669.

[2] Canzone di Gianni Mura.