A come Additivi: una questione di etichetta

Mi perdonino gli addetti ai lavori. Lo so. Voi conoscete molto bene l'argomento, ma la realtà dei fatti è che, esclusi voi, ben poche persone sono consapevoli di tutte le sostanze potenzialmente contenute in una bottiglia di vino. La stragrande maggioranza, quando prende in mano una bottiglia e inizia a leggerne l'etichetta, va in cerca di una denominazione o di un vitigno, del nome di una cantina o di un brand commerciale, magari dell'annata, ma non sospetta nemmeno lontanamente che dentro ci possa essere qualcosa che non è stato indicato, e ciò non accade perché le gente è stupida o distratta, ma più semplicemente perché lì non c'è scritto.

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E perché non c'è scritto? Perché, a differenza di quanto accade nel comparto agroalimentare, per quanto riguarda i produttori di vino non esiste alcun obbligo di indicare tutti gli ingredienti.

La domanda sorge spontanea: perché la normativa ha derogato proprio sul vino?

A questa domanda ha tentato di rispondere un’interessante inchiesta[1] della televisione svedese, dal titolo KALLA FAKTA. POISON IN YOUR GLASS e andata in onda il 25 Novembre 2013. Attraverso numerose interviste a consumatori, produttori, giornalisti, scienziati e burocrati, emerge chiaramente l'esistenza di due mondi paralleli.

Da un lato, ci sono i consumatori, genuinamente convinti che il vino contenga solo uva, i quali subiscono, ignari di tutto, le scelte commerciali dell’industria mondiale del vino. Dall’altro, ci sono i produttori, i quali ritengono, in maniera alquanto paternalistica, che il consumatore non debba sapere per il suo bene.

Le parole della portavoce di un’azienda francese sono illuminanti:

“Il fatto di mettere troppe informazioni confonde il consumatore. (...) É già molto difficile per il consumatore scegliere un vino quando ci sono cinque, sei righe su un’etichetta. Quindi è forse più semplice questa: (…) Un nome, un vitigno. È sufficiente.”

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“Questa gente non vuole dirti cosa c’è nel suo vino,” osserva laconicamente il giornalista del Guardian, Malcom Gluck:

Sono spaventati dalla vostra reazione quando scoprirete cosa c’è realmente nel vino. Non ci dicono nulla perché vogliono mantenere il mito che il vino è una cosa naturale. Che il balzo dal vigneto alla bottiglia è un semplice e unico salto dal grappolo alla bottiglia.

Al di là del velo, secondo Gluck, ci sono i poteri forti e la politica:

Noi siamo in contatto con parecchie fonti ben informate negli uffici della Comunità Europea che ci hanno tutte confermato che le lobby del vino sabotano puntualmente ogni tentativo di cambiare la legge relativa all’etichettatura del vino. Sono prevalentemente i paesi produttori di vino all’interno della Comunità Europea che rimarranno esenti dal dover dichiarare tutti gli ingredienti in etichetta. Ogni volta che l’argomento è stato discusso davanti al Parlamento Europeo, è stato puntualmente respinto.

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Perché segnalare gli ingredienti in etichetta è illegale. Lo sapevate? Lo ha stabilito lo stesso Parlamento che ha varato leggi che permettono ai produttori di vino di “usare sessanta diverse sostanze, molte delle quali hanno un numero con la E”, di cui almeno un terzo è sicuramente causa di allergie e ipersensibilità, anche se “gli unici additivi che i produttori di vino devono segnalare in etichetta sono i solfiti, il latte e le uova[2].”

La lista degli additivi è davvero lunga. E gli scienziati e i medici intervistati sono molto cauti in merito. Messi davanti ai numeri e ai risultati delle analisi, ipotizzano che allergie e ipersensibilità non siano dovute ai solfiti, all’alcol o alle istamine, come viene spesso affermato, ma più probabilmente agli additivi e ai residui di pesticidi (in particolare, il tiofanato-metile, un fungicida con effetti mutageni e, come sostiene Jenny Kreuger dell’università di Scienze Agricole di Uppsala, sospettato di essere cancerogeno).

Anche i burocrati svedesi, che dovrebbero tutelare la salute pubblica, durante le interviste si mostrano molto cauti, decidendo di intervenire solo a fronte di una concreta denuncia, perché i vini in commercio sono troppi e, in fondo, il mondo del vino è “industria agricola”.

Ph. credits: Il Gazzettino di Treviso.

Ph. credits: Il Gazzettino di Treviso.

È un serpente che si morde la coda. Come ammette la stessa portavoce dell’azienda vinicola francese, se usiamo troppi pesticidi, il terreno muore. Se il terreno muore, il vino non ha sapore, quindi dobbiamo usare gli additivi per ricreare il gusto che il consumatore sta cercando. E non possiamo esimerci dal farlo perché, anche ci convertissimo al biologico, il vicino inquinerebbe comunque il nostro vigneto, perderemmo la maggior parte del raccolto e, alla fine dell’anno, chiuderemmo il bilancio in perdita. Perché, conclude la portavoce, il vino è un business, e se anche i pesticidi facessero venire il cancro, non sarà certo per i livelli minimali presenti nel vino, che possiamo sempre decidere di non bere. Più probabilmente ci verrà il cancro per il troppo vino che abbiamo bevuto.

Il ragionamento non fa una grinza. L'alcol etilico è realmente tossico per il nostro organismo, ed è altrettanto vero che noi umani dipendiamo completamente dal cibo (che, purtroppo per noi, è ben più inquinato), mentre non abbiamo alcuna necessità di bere vino per restare in vita.

È forse questo il motivo per cui la mancanza di trasparenza viene avvertita come giustificabile e non appare poi così grave?

In effetti, se oggigiorno, come ci ha dimostrato Morgan Spurlock in "Supersize me", non è più ammissibile per una multinazionale del fast food dichiarare che nessuno è costretto a entrare nei suoi ristoranti, o per le multinazionali del tabacco affermare che nessuno è stato obbligato a fumare (per lo meno negli Stati Uniti), il discorso sul vino è un po’ diverso, trattandosi di un “prodotto di piacere e di cultura”, come lo definisce la CEVI in una lettera ai Deputati Europei, che nessuno è obbligato a consumare. Ben più grave è che tracce di tiofanato-metile vengano ritrovate in alimenti ritenuti salutari, come frutta e verdura.

È chiaro che questo discorso non giova all’immagine del vino. Lo declassa, come sottolinea giustamente Malcom Gluck, al rango di qualsiasi bibita zuccherata, con un’unica sostanziale differenza però: che le bibite zuccherate (i cosiddetti soft drinks) sono molto più oneste, perché almeno dichiarano gli ingredienti in etichetta, mentre nessuno sa esattamente che cosa contenga una bottiglia di vino.

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Ovvero: proprio perché il consumatore sa esattamente che cosa contiene un soft drink, può sempre decidere se acquistarlo o meno. Col vino questa possibilità non si dà: il consumatore viene irretito da un’affascinante idea di naturalità – la passione del contadino, l’uva pigiata coi piedi, il ribollire dei tini, i profumi della terra – che lui crede di ritrovare nella bottiglia ma, in realtà, è solo il frutto di un’illusione ottica.

Un'illusione ottica creata dall'industria del vino, ovviamente.

È il lupo che si veste da agnello. La sua parola d’ordine è raccontare falsamente il vino in modo bucolico, e fare in modo che la gente non ne conosca il contenuto, col pretesto che, in fondo, il consumatore non vuole né scegliere, né tantomeno sapere.

Naturalmente è stato anche previsto che la situazione possa sfuggire di mano. Se anche quell’immagine poetica di naturalità dovesse essere scardinata e il vino fosse effettivamente percepito alla stregua di un soft drink (solo più disonesto), l'industria finirebbe comunque per trarne vantaggio: il consumatore smetterebbe di credere alla favola bella (quella del vignaiolo autentico che “dice quel che fa e fa quel che dice”) e, deluso, si rivolgerebbe definitivamente al vino industriale, che almeno non mente e costa pure meno.

Se è difficile per il consumatore accedere alle informazioni, è altrettanto difficile per chi produce vini naturali promuoverli e farli conoscere al grande pubblico. Non parliamo poi di chi il vino lo deve comunicare.

Che dovremmo fare noi? Informare o intrigare? Disilludere o ammaliare? E se poi fare un po’ di chiarezza dovesse ripercuotersi sulle vendite e rovinare un’immagine? Non sarebbe meglio raccontare poeticamente la bellezza di questo mondo, omettendone le contraddizioni? Perché il mondo del vino è, nel contempo, luce e ombra, come tutto ciò che è reale, ma è di gran lunga meno problematico proporlo come se fosse il Regno delle Fiabe

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Le scelte lessicali sono un aspetto centrale della questione: biologico, biodinamico e naturale sono ormai termini molto spendibili e di moda, ma solo quest'ultimo è un termine che divide, infervora e suscita emozioni nel bene e nel male. E non a caso perché, mentre biologico e biodinamico si riferiscono a pratiche agricole, naturale tenta invece di dare un nome a un tipo di vinificazione che in realtà è una non-pratica di cantina. Proprio a causa di questa sua natura aleatoria, sfugge dunque a qualsiasi tentativo di classificazione.

Naturale si oppone ad artificiale. I sostenitori dell’artificio sostengono che nessun vino è naturale, perché la vera natura dell’uva è quella di diventare aceto, ed è solo la mano dell’uomo ad aver creato il vino, interrompendo il naturale processo di fermentazione e di ossidazione.

Verità assoluta a cui ne affiancherei un'altra: che la meravigliosa espressione culturale che accompagna noi umani da quasi ottomila anni non ha nulla a che fare con certi liquidi clinicamente morti, impropriamente chiamati vino.

Inoltre, sostengono che i cosiddetti vini naturali sono cattivi, mal fatti, puzzano, sono solo una moda e si somigliano un po’ tutti.

Anche questo è parzialmente vero: alcuni vini sono effettivamente cattivi (proprio come alcuni vini convenzionali sono banali e inutili), talvolta non sono perfettamente puliti e tecnicamente ineccepibili (al contrario di certi vini convenzionali che hanno fatto la plastica facciale), e spesso tendono (specialmente i macerati bianchi) a convergere su un sapore che annichilisce il frutto, la varietà e il terroir (come spesso i vini convenzionali tendono ad omologarsi, assecondando un gusto standardizzato).

Capite bene che, con una simile normativa, giocare sporco è molto facile. Chiunque può farsi passare per quello che non è. Se con il vino cosiddetto biodinamico (cioè frutto di una pratica agronomica biodinamica) noi consumatori dovremmo essere teoricamente al sicuro da additivi e residui di pesticidi, con il vino biologico dovremmo (sempre teoricamente) essere al sicuro solo dai residui dei pesticidi, perché il Regolamento Europeo 203/2012 consente l'aggiunta di quasi la metà dei coadiuvanti utilizzati dai produttori convenzionali.

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Grazie a un gioco di prestigio, tutta l’attenzione mediatica (e la conseguente demonizzazione) da pesticidi e coadiuvanti potenzialmente pericolosi si è spostata sul capro espiatorio numero uno: i famigerati solfiti, nelle forme di E220 (diossido di zolfo) e di E224 (metabisolfito di potassio). Sull'etichetta compare dunque, come unico indiziato, la scritta "contiene solfiti" (giusto per non passare inosservati, in tutte le lingue del mondo), dimenticando però sbadatamente di segnalare (opps!) la quantità aggiunta. 

Questa dimenticanza ha avuto due effetti interessanti: aver equiparato produttori che, per assurdo, ne aggiungono 200 milligrammi litro a produttori che ne aggiungono soltanto 30-40 milligrammi, e aver generato una categoria di vini oggi molto di moda: i vini senza solfiti aggiunti.

Ma anche qui attenzione: accanto a chi li produce senza trucco e senza inganno (ovvero senza solfiti e basta), affrontando il rischio di ossidazione, c'è chi li produce aprendo il paracadute, ovvero sostituendo i solfiti con additivi antiossidanti - che ovviamente non risultano in etichetta.  

Ritorniamo alla domanda di partenza: perché la normativa ha derogato proprio sul vino? Avete le idee un po' più chiare adesso?

Food for thought!

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[1] Puntata visibile sul sito: www.tv4.se/Kalla Fakta/Cold Facts: Poison in your glass. Il programma è in lingua svedese con sottotitoli in inglese. Le traduzioni sono mie.

[2] L’obbligo di dichiarare la presenza di residui di caseina (usata per contrastare le ossidazioni nei vini bianchi), di albumina (usata nel collaggio dei vini rossi da invecchiamento) e di lisozima (enzima derivato dall’uovo usato per il controllo della fermentazione malolattica) è in vigore in Europa dal 1 luglio 2012, ma solo se la quantità rilevabile è superiore a 0,25 mg/L.